Questa è la penultima foto che ho di mia nonna, risale a due anni fa. L’ultima, poco più di un anno fa, non ve la mostro perché l’ho scattata quando lei aveva già esalato l’ultimo respiro ed era bellissima, con la sua pelle di pesca e il suo corpicino ormai da bambina.
Mia nonna se l’è portata via quel mostro chiamato Alzheimer e non se l’è portata via un anno fa, l’ha svuotata da dentro dal lontano 2007 (ufficialmente, perché i segnali c’erano già da tempo). L’Alzheimer ti svuota dentro, per alcuni anni c’è un corpo sostanzialmente in salute, ma una mente che è volata lontano, poi anche il sottile involucro che contiene ciò che ricordi di quella persona inizia a deteriorarsi.
Quando mia nonna è morta era sdraiata nel suo letto – che già sdraiata è un parolone, era rannicchiata, perché non riusciva più o stendere le gambe – e quando ho sollevato il lenzuolo il suo corpo mi ha ricordato tanto quello di mia figlia di otto anni. Un corpo sottile, senza più grasso, senza più muscoli, candido, piccolo. Un corpo che avevo solo voglia di stringere nell’ultimo abbraccio.
Mia nonna e mio nonno mi hanno cresciuta, visto che i miei genitori mi hanno avuta giovanissimi. Nei primi 30 anni di vita (mio nonno se n’è andato nel 2011, sfinito dal dolore di vedere sua moglie, l’amore della sua vita, che non lo riconosceva più) sono stati il mio punto di riferimento; ogni volta che dormivo da loro, fino all’ultima volta, mio nonno mi portava il latte caldo con l’orzo a letto prima di dormire e mia nonna si sedeva accanto a me per chiacchierare prima della buonanotte. Ero sempre la loro bambina, anche con una bambina in pancia, anche con due bambine piccole che portavo a pranzo a casa loro.
La prima bambina mia nonna l’ha conosciuta e chiamata per nome; la seconda l’ha vista ma non ha mai capito che non si trattava di un maschietto. In quel periodo, nove anni fa, ha iniziato a passare le sue giornate seduta sul divano facendo, sfacendo e rifacendo di nuovo un pezzo di coperta ai ferri e da lì a poco ha iniziato a giocare con i bambolotti.
Sì, mia nonna, quella che aveva detto no al più bello dei generali tedeschi durante la seconda guerra mondiale, quella che dal niente insieme a mio nonno era riuscita a far studiare i 4 figli e a farli diventare quello che erano, quella che uno di questi figli lo ha visto morire e ha fatto forza a tutti, giocava con i bambolotti. Li vestiva, li cambiava, li cullava, gli accarezzava la testina come se fossero uno dei suoi figli o nipotini.
L’Alzheimer l’aveva portata un un altro mondo, forse un mondo in cui suo figlio era ancora vivo, e in cui io, la nipote che ha cresciuto come una mamma, ero un giorno sua mamma, un giorno sua figlia, un giorno una perfetta sconosciuta. In certi giorni, di punto in bianco, si metteva ad urlare che quella non era casa sua, l’avevano portata chissà dove e allora la prendevo per mano, facevo il giro dell’isolato e quando tornava davanti al portone finalmente la riconosceva.
Ma in tutto ciò quando morì mio nonno risorse per un momento dal buio e con le lacrime agli occhi mi disse: “Vally– mi chiamava così – mi hanno detto che è morto il mio amore…”.
Questo è quello che voglio ricordare, la vita dei miei nonni incentrata sull’amore e sulla famiglia.
I miei nonni vivono anche nelle mie figlie grazie ai miei racconti e non c’è giorno, davvero, che io non pensi a loro e al dono più grande che mi hanno fatto, oltre a crescermi: spiegarmi per tutti gli anni che sono stati al mio fianco che non avrei dovuto piangere per la loro morte, perché la loro vita era stata piena di amore e nell’amore si sarebbe conclusa.
Grazie nonni per avermi fatto diventare la donna che sono, che senza di voi sarebbe stato inmpossibile.