Sette mesi fa nascevo per la quarta volta insieme a mia figlia. Una gravidanza difficile, delle scelte dolorose. Se è vero che ogni bambino ha una storia, è vero anche che ogni mamma, ma soprattutto ogni gravidanza, hanno una storia a sè. Scoprire di aspettare Eva ha portato con sè tanta gioia, ma anche tanta preoccupazione: altre due figlie piccole, una faticosa famiglia allargata da gestire, tensioni, incomprensioni, necessità di riunire in un colpo persone e città diverse in un unico luogo. Nulla è stato facile, fin dal primo giorno… Eppure quel punticino nella mia pancia, quella cosina che mi causava nausea e sbalzi d’umore ha significato da subito amore allo stato puro e non mi è mai balenata per la testa l’idea che lei (all’epoca pensavo fosse un lui!) fosse un problema. Era solo amore, il risultato di un amore profondo ed intenso che si concretizzava dentro di me e non avrei permesso a niente e nessuno di mettere in dubbio questo elemento. Ho vissuto i primi quattro mesi con sgomento e preoccupazione misti a felicità, felicità nello scoprire che era la terza femminuccia, felicità nel comprare i primi completini cercando di fare i conti con le taglie e la data di nascita, felicità nel vedere come quel fagiolino prendeva forma settimana dopo settimana. Un misto di eccitazione e pensieri negativi sul come fare ad affrontare tutte le cose pratiche.
Finchè un giorno, la pancetta del quinto mese bella rotonda, le nausee passate, i primi problemi tecnici sorpassati, il fulmine a ciel sereno: “sua figlia ha una malformazione cardiaca, mi dispiace. Dovrà essere operata appena nata”. Parole secche, crude, troppo reali pur nella loro necessità. Visite su visite, mille ecografie, la tensione ogni volta che senti il medico non parlare, il non dormire più la notte… Sapete cosa significa non riuscire ad immaginare vostra figlia tra le vostre braccia? Pensare e ripensare a cosa ve ne farete, di tutti quei vestitini, di quel passeggino nuovo, di quei carillion così belli e ora così tristi, se lei non ce la farà? Riuscite a figurarvi cosa significhi per una mamma abbracciarsi la pancia e sperare che quei nove mesi non finiscano mai? Io non lo sapevo, lo sapevo per sentito dire e l’ho imparato a furia di lacrime, di giornate vuote, di sorrisi forzati.
Non sono mai stata particolarmente credente, eppure in quei brevi ma lunghissimi mesi mi sarei aggrappata a qualsiasi cosa; e allora le candele accese in chiese buie e deserte, le preghiere perchè mia figlia ce la facesse, perchè il mio amore bastasse a darle la forza, la voglia di stare al mondo.
Non so cosa sia scattato in me, ad un certo punto; se prima mi disperavo, non dormivo, in prossimità del parto la mia mente ha cominciato ad auto-proteggersi ed io ho ritrovato la calma… Più che calma freddezza, direi… Freddezza nel pensare che qualsiasi cosa sarebbe successa, l’avremmo potuta affrontare, freddezza col predisporre il tutto per un soggiorno romano che non sapevo quanto sarebbe durato. Forse è questo che ha pagato, perchè Eva – anzi, Eva Maria, lo avevo promesso nelle preghiere e questa cosa di darle il secondo nome l’ho mantenuta – è stata incredibilmente forte. Io non l’ho vista quando è nata, non ho sentito il suo pianto se non dal cellulare del mio compagno, ma dopo due giorni, quando sono andata da lei ancora tutta rotta per il cesareo, ci siamo toccate ed annusate e finalmente ricongiunte. E lei mi ha fatto capire quello che non avevo capito in trent’anni di vita, che a volte siamo molto più forti di quanto credano gli altri o di quanto crediamo noi stessi… Che spesso la grossa parte la fa la forza di volontà con cui affrontiamo le cose, che è giusto anche vivere alla giornata ed è bello apprezzare ogni sorriso come un dono prezioso. Ed io non le sarò mai abbastanza grata… So solo che continueremo a combattere insieme, tenendoci per mano come la prima volta e in qualsiasi difficoltà, noi saremo più forti.